Messaggi offensivi su Facebook: condanna al risarcimento del danno
15.000 € e spese processuali, tanto è costato il commento ingiurioso
Colui che lede la reputazione, l’onore o il decoro di una persona mediante l’invio di un messaggio tramite il social network “Facebook” è tenuto al risarcimento del danno. Il Tribunale di Monza, Sezione Quarta Civile, lo ha deciso con la sentenza del 2 marzo 2010, la prima, in Italia, a trattare di uno dei siti di condivisione più popolari al mondo. Una donna, portatrice di una particolare tipologia di strabismo, definita “esotropia congenita”, conosce un uomo tramite “Facebook”, e nasce tra loro una vera e propria relazione sentimentale. L’uomo viene assillato da quelle che definisce pressanti e ininterrotte attenzioni della donna e decide di inviarle un messaggio, visibile anche da altri utenti. Nel messaggio inviato alla donna chiude il rapporto con lei e non solo si accanisce sul suo aspetto fisico, ma ne rende noti i gusti sessuali. Per questo la donna decide di andare per vie legali chiedendo al magistrato il risarcimento del danno morale soggettivo o, comunque, del danno non patrimoniale, conseguente alla lesione subita.
Il Tribunale di Monza, chiamato a decidere, accoglie le pretese della donna precisando come “nell’ambito della categoria generale del danno non patrimoniale, la formula danno morale non individua una autonoma sotto-categoria di danno, ma descrive – tra i vari pregiudizi non patrimoniali – un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata: sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento” (Cass. Sez. Un., sentenza 11 novembre 2008, n. 26972 e n. 26975). Il tribunale di Monza ha sottolineato come “coloro che decidono di diventare utenti di “Fa.” sono ben consci non solo delle grandi possibilità relazionali offerte dal sito, ma anche delle potenziali esondazioni dei contenuti che vi inseriscono: rischio in una certa misura indubbiamente accettato e consapevolmente vissuto”. In questa consapevolezza deve rientrare anche quella che i commenti inseriti possono essere diffusi in modo più ampio attraverso il tagging e sfuggire quindi al controllo degli autori. Secondo il Giudice infatti “deve essere riconosciuto il diritto al risarcimento del danno morale soggettivo, inteso come “transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima” del fatto illecito, vale a dire come complesso delle sofferenze inferte alla danneggiata dall’evento dannoso, indipendentemente dalla sua rilevanza penalistica. Rilevanza che, peraltro, ben potrebbe essere ravvisata nel fatto dedotto in giudizio, concretamente sussumibile nell’ambito della astratta previsione di cui all’art. 594 c.p. (ingiuria) ovvero in quella più grave di cui all’art. 595 c.p. (diffamazione) alla luce del cennato carattere pubblico del contesto che ebbe a ospitare il messaggio de quo, della sua conoscenza da parte di più persone e della possibile sua incontrollata diffusione a seguito di tagging. Elemento, quest’ultimo, idoneo ad ulteriormente qualificare la potenzialità lesiva del fatto illecito, in uno con i documentati problemi di natura fisica ed estetica sofferti” dalla donna.