Video-choc del minore affetto da autismo, Google condannata
A febbraio il Tribunale di Milano ha condannato i tecnocrati di Google per violazione della privacy, ma non per diffamazione, per non aver impedito che fosse messo in rete il video del minore affetto da autismo picchiato dai compagni di classe in una scuola di Torino. Per la prima volta il più potente motore di ricerca al mondo veniva non solo messo sotto accusa, ma anche condannato. A due mesi dal fatto possiamo leggere le motivazioni della sentenza che ha sicuramente scandalizzato il popolo della rete e ha fatto riflettere molti su come sarà possibile conciliare la libertà d’espressione con il principio di responsabilità a cui il suo esercizio è necessariamente connesso.
La sentenza respinge il reato di diffamazione poiché manca la normativa in materia. Si legge nella sentenza “l’obbligo dl soggetto/web di impedire l’evento diffamatorio imporrebbe allo stesso un controllo o un filtro preventivo su tutti i dati immessi ogni secondo sulla rete, causandone l’immediata impossibilità d funzionamento”, per il giudice è un comportamento “inesigibile” quindi non perseguibile penalmente.
Diverso è il discorso sulla privacy, per la violazione della quale i dirigenti di Google sono stati invece condannati. Anche in questo campo, come riconosce il giudice, “non esiste, perlomeno ad oggi, un obbligo di legge codificato che imponga agli ISP un controllo preventivo sulle innumerevoli serie di dati che passano ogni secondo nelle maglie dei gestori o proprietari dei siti web”, ma poi afferma “d’altro canto, non esiste nemmeno la sconfinata prateria di Internet, dove tutto è permesso e niente può essere vietato, pena la scomunica mondiale del popolo di Internet”. La condanna scaturisce dal fatto che Google non ha informato adeguatamente i suoi utenti riguardo agli obblighi imposti dalla legge sulla privacy, che, nel caso specifico sono stati ampiamente violati a danni di un minore affetto da gravissimi problemi di salute. Si legge “esiste quindi un obbligo non di controllo preventivo dei dati immessi nel sistema, ma di corretta e puntuale informazione, da parte di chi accetti e apprenda dati provenienti da terzi, ai terzi che questi dati consegnano”. La sentenza si sofferma poi sul profitto economico che Google ricava sul piano pubblicitario “non è la scritta sul muro che costituisce reato per il proprietario del muro, ma il suo sfruttamento commerciale può esserlo in determinati casi e in determinate circostanze”.