Condanna a Google per suggerimenti diffamatori verso un imprenditore
Ancora una volta l´eco di un provvedimento giudiziale scuote il web, alimentando discussioni e polemiche: anche questa volta ad incagliarsi nelle maglie della giustizia è stato un motore di ricerca.
A scatenare gli internauti, in questo caso, è stata l´ordinanza resa dal Tribunale di Milano il 31 marzo 2011, in sede di reclamo. Il Collegio, confermando il precedente provvedimento cautelare, ha imposto al motore di ricerca Google di rimuovere i termini “truffa” e “truffatore”, che, attraverso la funzione “suggest”, affiancavano l´inserimento del nominativo di un imprenditore, il quale svolgeva la propria attività avvalendosi, prevalentemente, di internet.
La funzione di auto – completamento delle chiavi di ricerca offerta dal motore di Mountain View, infatti, suggeriva agli utenti termini lesivi della reputazione dell´imprenditore, scoraggiando i contatti, e insinuando negli utenti il sospetto per attività non lecite che potessero essere state svolte dallo stesso.
Dopo una prima fase stragiudiziale, in cui l´imprenditore interpellava, senza successo, la controparte, per ottenere la rimozione dei suggerimenti considerati diffamatori, egli decideva di rivolgersi, in via d´urgenza, al Tribunale, che, come detto, emetteva il provvedimento richiesto. Google, pertanto, proponeva reclamo, che il Collegio, tuttavia, rigettava.
I Giudici, infatti, hanno ritenuto sussistere la responsabilità del motore di ricerca, pur riconoscendo che lo stesso fosse un Internet Service Provider, nella specie un hosting provider, costituito da un data base e da un software. Tuttavia, non hanno ritenuto applicabile, al caso in esame, la normativa dettata in tema di e-commerce (D. Lgs. 70/2003), pure richiamata dalla difesa del noto motore di ricerca, che eccepiva, alla lettera della legge, di non poter essere giudicato responsabile per i contenuti caricati da terzi.
Il Collegio, infatti, ha ritenuto che l´attività di hosting restasse fuori dall´ambito della controversia, essendo l´oggetto della stessa limitato all´associazione tra il nome dell´imprenditore e i termini denigratori, spostando, in tal modo, il tema centrale della decisione sul software adottato per la funzione di completamento automatico della stringa di ricerca: il servizio suggest / autocomplete, un programma approntato da Google, che lo impiega per agevolare le ricerche degli utenti.
Il tema del contendere, pertanto, non riguardava la responsabilità per i contenuti caricati da terzi, ma esclusivamente il suggerimento elaborato dal programma di cui si avvale il motore di ricerca. Il quale funziona sulla base di un algoritmo che riporta le ricerche più popolari effettuate dagli utenti in un determinato arco di tempo, automaticamente (operando il trattamento di dati presenti su pagine web immesse da terzi). Secondo il Collegio “E´ proprio questo il meccanismo di operatività del software messo a punto da Google che determina il risultato rappresentato dagli abbinamenti che costituiscono previsioni o percorsi possibili di ricerca e che appaiono all´utente che inizia la ricerca digitando le parole chiave. Dunque è la scelta a monte e l´utilizzo di tale sistema e dei suoi particolari meccanismi di operatività a determinare – a valle – l´addebitabilità a Google dei risultati che il meccanismo così ideato produce; con la sua conseguente responsabilità extracontrattuale (ex art. 2043 c.c.) per i risultati eventualmente lesivi determinati dal meccanismo di funzionamento di questo particolare sistema di ricerca“.
Anche l´obiezione per cui il software funziona in maniera automatica, e non appare possibile operare un discrimine tra termini “buoni” e termini “cattivi” senza compromettere l´intero servizio è stata rigettata dal Tribunale, il quale ha ritenuto la censura inconferente, dal momento che l´oggetto della controversia non era esteso ad un controllo preventivo sui dati presenti, ma soltanto ad un intervento successivo, a posteriori, su risultati ben individuati.
Intervento che, a parere del Tribunale, il motore di ricerca potrebbe comunque operare, in ogni caso, in via successiva, quando ciò fosse richiesto a fronte di chiare violazioni di diritti dei terzi.
La pronuncia, certamente, pone un interessante precedente, travalicando gli angusti argini del D. Lgs. 70/2003 e riconducendo il web al più ampio ambito dell´illecito aquiliano, ma lascia aperti notevoli interrogativi. Appare lecito domandarsi, data la mole di dati trattati dal programma di completamento automatico, quando la violazione del diritto del terzo appaia “chiara”, tanto più in una fase precedente l´accertamento giudiziale, ma soprattutto, appare rilevante come, anche in questo caso, la responsabilità del motore di ricerca sia stata cercata fuori dall´ambito di operatività del D.lgs. 70/2003, che, pur ponendo notevoli dubbi applicativi, dovrebbe costituire la normativa di riferimento, confermando una tendenza già più volte seguita dai nostri Tribunali, che si sono trovati a rispondere alle immediate istanze di giustizia o estendendo in via interpretativa la nozione di content provider o a fondare le decisioni su diverse fonti di responsabilità, come, ad esempio, il D. Lgs. 196/2003.
Tendenza che, tuttavia, in assenza di orientamenti consolidati, non pare ancora rispondere, nell´inerzia del legislatore, a quell’esigenza di certezza del diritto che sempre più si invoca anche sul web.