Il diritto all’oblio c’è. Ma si “vede”?
La lezione viene da Piazza Cavour. Ed è per tutti, addetti ai lavori e non.
La sentenza della Corte Suprema di Cassazione dello scorso 11 gennaio (n. 5525), al di là delle peculiari ragioni del ricorrente, sollevato, buon per lui, dalla sua personale gogna mediatica, dà un significativo contributo ad un argomento negli anni fortemente dibattuto, difeso ma anche deliberatamente taciuto, quello del diritto all’oblio.
In via definitiva la decisione risolve a favore del ricorrente un’annosa questione sulla permanenza in rete e negli archivi della testata giornalistica allo stato soccombente di notizie di cronaca giudiziaria che lo riguardavano. Notizie ad oggi e da tempo superate, ciò nonostante cristallizzate nella loro essenza deteriore.
La Corte con un percorso logico di tutto rispetto afferma il dovere del titolare del trattamento -riconosciuto in specie nella società editrice resistente – “di osservare i criteri di proporzionalità, necessità e pertinenza e non eccedenza dell’informazione, avuto riguardo alla finalità che consente il lecito trattamento nonché di garantire la contestualizzazione e l’aggiornamento della notizia di cronaca oggetto di informazione e di trattamento, a tutela del diritto del soggetto cui i dati pertengono alla propria identità personale o morale nella sua proiezione sociale, oltre che a salvaguardia del diritto del cittadino utente di ricevere una completa e corretta informazione”.
La disamina della Suprema Corte consente di riconoscere le già solide radici del diritto all’oblio, pur tuttavia ancora carente di una adeguata codificazione. La difficile gestazione ha permesso ai più fino ad ora – almeno si spera – di pianificare interpretazioni secondo gli interessi del momento.
Se fino ad ora quindi ogni valutazione del “presunto” diritto era rimessa al concreto atteggiarsi nella società degli altri diritti ad esso contrapposti, ai quali si è da sempre riconosciuta idonea collocazione nel panorama delle fonti di produzione normativa, oggi, con sollievo degli operatori in materia, l’oblio abbandona il territorio delle suggestioni poetiche che da sempre evoca, riappropriandosi del suo valore. Già innato e insito nel nostro ordinamento.
Come chiaramente spiega il Supremo Consesso nella sua decisione.
Il sistema introdotto con il D.lgs n. 196/2003 informato al prioritario rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali e della dignità della persona e, in particolare, della riservatezza e del diritto alla protezione dei dati personali, nonché dell’identità personale o morale dei soggetti cui i dati si riferiscono, è caratterizzato dalla necessaria rispondenza del trattamento dei dati personali a criteri di proporzionalità, necessità, pertinenza e non eccedenza allo scopo, che trova riscontro nella compartecipazione dell’interessato nell’utilizzazione dei propri dati personali.
Il lecito trattamento dei dati personali è, quindi, il risultato della combinazione sinergica degli obblighi del titolare e dei diritti dell’interessato. Nel bilancio degli interessi contrapposti il legislatore individua il necessario sacrificio degli uni rispetto agli altri limitato nel tempo e nello spazio (leggi principi di proporzionalità e pertinenza) e dagli scopi perseguiti (con il concreto trattamento dei dati personali (leggi principi di finalità e non eccedenza).
Corollario di tale percorso normativo è inevitabilmente il diritto all’oblio, quale componente dinamica della tutela della riservatezza, teso come è al controllo dell’utilizzo e del destino dei dati, e come vuole la Suprema Corte, non solo nella decisione di che trattasi, a quello rivolto alla tutela dell’immagine sociale dell’interessato cui i dati pertengono. Esso non è altro che il diritto al rispetto dell’ identità personale o morale, a non vedere, cioè, “travisato o alterato all’esterno il proprio patrimonio intellettuale, politico, sociale, religioso, ideologico, professionale” (cfr. Cass. 22/06/1985) e, pertanto, alla verità della propria immagine nel momento storico cogente.
Gli strumenti a disposizione per far valere l’acclarato diritto all’oblio presuppongono la necessaria compartecipazione di attori strutturati per il suo rispetto.
L’uno, il titolare del trattamento, compenetrato nei suoi obblighi. Esso, cioè, è tenuto a far sì che i dati personali siano utilizzati in modo lecito e secondo correttezza; raccolti e registrati per scopi determinati, espliciti e legittimi; esatti e se necessario aggiornati; pertinenti, completi e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali sono raccolti o successivamente trattati; conservati in una forma che consenta l’identificazione dell’interessato per un periodo di tempo non superiore a quello necessario agli scopi detti.
L’altro, l’interessato, agevolato nel diritto di conoscere costantemente dell’utilizzo congruo dei suoi dati personali, nonché di opporsi al trattamento degli stessi, ovvero di ingerirsi al riguardo, chiedendone la cancellazione, la trasformazione, il blocco, ovvero la rettificazione, l’aggiornamento e l’integrazione.
Manca qualcosa?
Al di là dei principi che riconoscono da tempo il diritto in questione, il nostro ordinamento è ancora poco duttile nella tutela concreta dello stesso, stretta negli angusti limiti di una realtà finita e non potenzialmente infinita come quella attuale.
Si pensi solo che nella fattispecie analizzata dalla Corte di Cassazione la condotta presunta in violazione del diritto all’oblio si consumava in rete ove, è ben noto, gli attori coinvolti sono diversi e non tutti facilmente inquadrabili in quelli sopra considerati. Ciascuno però mantiene un ruolo nella vicenda da non sottovalutare soprattutto in considerazione dell’interesse all’esercizio esaustivo dei diritti coinvolti. L’ ondivago “mare di internet” (come lo definisce la Cassazione), pieno di pesci, ad oggi si traduce in ostacoli per il malcapitato che non trova, o trova con difficoltà e in tempi biblici, ragione e luogo per la sua legittima tutela.
In chiusura; ciò che manca non è il diritto all’oblio ma gli strumenti per farlo valere nei giusti tempi e modi e soprattutto nei luoghi deputati. Quindi l’auspicio è che il nostro legislatore non si trovi impreparato una volta che sarà chiamato a prendere atto della riforma europea in materia di protezione dei dati personali, che pretenderà, tra l’altro, che l’Italia quanto meno sia in grado di strutturare le autorità competenti o le procedure necessarie in modo da snellire la burocrazia (anche mediatica) sottesa all’esercizio del diritto all’oblio. Che c’è ma, per ora, “non si vede”.