Videosorveglianza: le registrazioni video difensive costituiscono prova atipica
E´ recente la sentenza ( n. 30177/2013) con la quale la Suprema Corte ha fornito un orientamento giurisprudenziale in relazione alla qualificazione giuridica, nonché sul ruolo processuale, delle videoregistrazioni difensive sul luogo di lavoro.
Le registrazioni in questione erano state effettuate dalla polizia giudiziaria a seguito di una denuncia di un dipendente relativa ad anomali ritardi nella presentazione sul luogo di lavoro da parte di colleghi del suo stesso ufficio. Le telecamere venivano dunque posizionate in corrispondenza dell’area d’ingresso dei dipendenti in modo da potersi sorvegliare l’orologio marcatempo.
A seguito dei suddetti controlli venivano, ovviamente, rilevate delle irregolarità di seguito attribuite (al termine del giudizio di primo grado) ai lavoratori subordinati proprio grazie alle decisive videoregistrazioni.
Il ricorso (doppio in realtà) presentato dai suddetti dipendenti ha dato spunto per il chiarimento del ruolo che tale mezzo di prova può rivestire in un procedimento.
Sono stati infatti chiariti tutti i dubbi sulla legittimità sollevati dai ricorrenti: in relazione alla pretesa violazione dell’art. 266 c.p.p. (sui casi di ammissibilità delle intercettazioni), le registrazioni video dell’area dove era posto l’orologio marcatempo non sono state ritenute qualificabili come “intercettazioni”, quanto piuttosto rientranti nella categoria delle prove atipiche di cui all’articolo 189 c.p.p.
La Suprema Corte ha chiarito dunque che non si è trattato di intercettazioni di comunicazioni neppure dei cosiddetti “comportamenti comunicativi”, perché l’obiettivo del controllo era, da un lato, la condotta di utilizzazione di più badge di una singola persona e, dall’altro, il mancato ingresso sul luogo di lavoro di altri impiegati. Non trovano, quindi, applicazione le disposizioni relative alla captazione di comunicazioni e allo scambio di informazioni per via informatica. Di conseguenza la mancata autorizzazione da parte di un giudice non rivestiva alcun rilievo nel caso di specie. E’ stato poi escluso che l’ufficio, nel caso in questione, potesse rappresentare un “domicilio” ai sensi dell’articolo 14 Cost. (e conseguenti tutele).
Secondo un certo orientamento giurisprudenziale, l’ufficio può fregiarsi della tutela riservata al domicilio nel caso in cui si tratti di sede di lavoro in cui il singolo soggetto abbia l’autonomo diritto di permanere e precludere l’ingresso a terzi, caratteristica non appartenente all’atrio della filiale dove si sono svolte le videoriprese, ciò per l’impossibilità dei singoli soggetti di fruirne con una pienezza corrispondente a quella domiciliare.
Il divieto (e la necessaria autorizzazione del giudice) discendono dalla sua destinazione, nel dato momento ed alle date condizioni, che risultino idonee a garantire la riservatezza della persona ed escluderne l’altrui ingresso. Siffatta caratteristica non ricorre nel caso di specie, essendo i locali soggetti a videoriprese, così come non idonei a integrare un domicilio, nemmeno ad integrare un luogo nel quale venga esercitata e tutelata la riservatezza dell’individuo.
Infine il richiamo all’art. 4, L. 300/1970 (c.d. “Statuto dei Lavoratori”) e dell’art. 114, D.lgs. 196/2003 (che direttamente richiama lo Statuto dei lavoratori). Le due disposizioni in questione vietano il controllo dell’attività lavorativa ovvero il controllo della corretta esecuzione della ordinaria prestazione da parte del lavoratore subordinato. Le stesse però non impediscono i controlli destinati alla difesa dell’impresa rispetto a condotte illecite del lavoratore o, a tutela del patrimonio aziendale. Ne discende la piena utilizzabilità, ai fini della prova della commissione di reati, delle videoregistrazioni effettuate direttamente dal datore di lavoro, destinatario del citato divieto, laddove agisca non per il controllo della prestazione lavorativa, ma per specifiche esigenze di tutela dell’azienda.
Rileva anche far riferimento all’attribuzione che i ricorrenti hanno fatto di tale divieto, ritenendolo concernente la polizia giudiziaria. Si tratta di un processo logico completamente errato: sia perché il divieto è riferito esclusivamente al datore di lavoro (e la sua collocazione all’interno dello Statuto dei lavoratori non fa che confermarlo), sia perché esso riguarda solo il controllo dello svolgimento dell’ordinaria attività lavorativa.
Per questo la Suprema Corte ha deciso di rigettare ed affermare quali siano i limiti e la collocazione delle videoregistrazioni in questione.