Consenso dei lavoratori all’installazione dell’impianto di videosorveglianza evoluzione o involuzione della Cassazione?
L’annosa questione datore di lavoro e ripresa diretta dei dipendenti sul luogo di lavoro, torna a far discutere. Questa volta ad accedere il dibattito è la recente sentenza della Cassazione (Cass. 4331/2013) relativa alla legittimità dell´installazione di un impianto di videosorveglianza che, in maniera del tutto inaspettata, ha rievocato una precedente decisione della Suprema Corte che sembrava dovesse rimanere un singolare ed isolato episodio.
La sentenza in oggetto risolveva il ricorso del datore di lavoro, ribadendo la responsabilità penale gravante su quest’ultimo anche nel caso di impianto installato, ma non funzionante.
Per la configurazione del reato (di pericolo), come previsto dal combinato degli articoli 114 e 171 del D. Lgs. 196/2003 risulta infatti sufficiente la mera configurabilità del controllo del lavoratore, non rilevando affatto la mancata attivazione delle telecamere. A tal proposito ricordiamo che l’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori stabilisce che “Gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell´attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali…”.
Questa sentenza, oltre a ribadire una regola già nota, per quanto non sempre rispettata, riporta esplicito riferimento al principio espresso dagli Ermellini nel non così lontano 2012 (Cass. Pen. 22611/2012).
Infatti la Corte annovera tra le procedure da espletare per la regolarizzazione degli impianti di videosorveglianza, oltre all’autorizzazione della DPL e l´accordo con le RSA aziendali, anche l’autorizzazione scritta di tutti i dipendenti: di fatto parificando il consenso dei lavoratori (seppur all´unanimità) ai requisiti richiesti per legge e dunque scavalcando con il semplice assenso dei dipendenti le tutele poste a protezione degli interessi dei lavoratori.
È pacifico come vi sia una sostanziale mancanza di equilibrio nel rapporto datore di lavoro-dipendenti e quale valore possa realmente avere il consenso richiesto – ed ottenuto – in ambito lavorativo.
In materia, a supporto di quanto appena esposto, si fa breve riferimento al parere del WP Art. 29 n 8 del 2001(WP48), dove si approfondisce come la legittimazione derivante dal consenso del lavoratore non possa avere particolare valore a causa della mancanza del requisito fondamentale della libertà del consenso stesso.
Il Gruppo di lavoro Art. 29 sostiene infatti che “se un datore di lavoro deve trattare dati personali come conseguenza necessaria e inevitabile del rapporto di lavoro, sbaglia se cerca di legittimare il trattamento mediante il consenso. Il ricorso al consenso va limitato ai casi in cui il lavoratore è effettivamente libero di scegliere e può successivamente ritirare il proprio consenso senza pregiudizio”.
È dunque evidente come questo richiamo risulti perlomeno sorprendente, dando nuova forza ad una pronuncia criticata e, fino ad ora, isolata. In un’ottica prettamente pratica la possibile (a dir la verità improbabile) applicazione di quanto statuito dalla Suprema Corte, avrebbe un forte impatto semplificatorio per quanto riguarda gli adempimenti datoriali, ma comporterebbe alla stesso tempo una forte contrazione delle tutele a garanzia della riservatezza del lavoratore, alla luce della sopra esposta analisi. A questo punto la domanda sorge spontanea: si tratta di evoluzione o di involuzione?