Videosorveglianza e lavoratori dipendenti: no al controllo a distanza dell’attività
Telecamere e lavoratori dipendenti. Torna a riaccendersi il dibattito sulla spinosa questione del controllo dell’attività di lavoratori subordinati da parte del principale. Ancora una volta a farne le spese è lo stesso datore di lavoro, colpevole di non aver rispettato le norme a tutela del personale.
I fatti risalgono allo scorso 17 aprile quando con la sentenza n. 17027/14 la Cassazione, sanziona un datore di lavoro per aver installato un impianto di videosorveglianza senza aver precedentemente richiesto l’autorizzazione alla DTL competente. Nel caso concreto, la proprietaria di un ristorante aveva istallato quattro telecamere a circuito chiuso in violazione di quanto previsto dall’art. 4, comma II dello Statuto dei Lavoratori. Le “telecamere erano collocate al piano terra nella sala ove si trovavano i tavoli, una in direzione della porta d´ingresso e l´altra guardava i tavoli; una terza era posta a controllare il corridoio, conducente alla cucina; una ulteriore all´interno della sala ristorazione, posta al primo piano”.
Il loro stesso posizionamento – ha sottolineato il Giudice di primo grado – rilevava che l’intenzione della datrice non fosse soltanto quella di tutelare i beni aziendali da eventuali fatti illeciti di terzi. In ogni caso viene evidenziato che dal momento in cui l’impianto comporta un possibile controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, il sopra richiamato art. 4, comma II, non lascia spazio ad interpretazioni: ammette la possibilità di procedere all’installazione solo per esigenze aziendali (organizzative o produttive) e di sicurezza del lavoro e previo accordo con le rappresentanze sindacali presenti in azienda o, in mancanza, con la commissione interna, o in difetto di queste o in caso di mancato accordo, con la Direzione Provinciale del Lavoro (oggi DTL).
Non è quindi necessario per la sussistenza della fattispecie di reato che il datore abbia l’intenzione di controllare la produttività, ma è sufficiente a priori l´installazione, in assenza delle condizioni sopra specificate (prescindendo quindi anche dall’utilizzo dell’impianto). Siamo di fronte ad un reato di pericolo.
A nulla sono valse le dichiarazioni della datrice la quale ha sua difesa ha affermato di non conoscere le disposizioni dello Statuto dei lavoratori, in quanto vissuta per molti anni all’estero; è stato quindi respinto il secondo motivo di annullamento presentato dalla ricorrente, basato sull’“insussistenza dell’elemento soggettivo” del reato. Ignorantia legis non excusat.
Inoltre la scusante di cui all’art. 47 c.p. non è stata ravvisata, in quanto essa presuppone nelle contravvenzioni che l’errore sia determinato da caso fortuito o forza maggiore, elementi non ravvisati nel caso concreto.
Respinti i motivi di ricorso per inammissibilità, la sentenza di primo grado è stata confermata e la datrice condannata alle spese.