LinkedIn e la reputation aziendale
George Orwell diceva che “Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato”. Aggiungerei anche che chi regolamenta – con una visione previdente ed accorta – controlla il futuro, o almeno ci prova. L’ottica è quella della prevenzione, e principalmente mi riferisco al contesto aziendale, e all’uso che i dipendenti fanno di Internet, in particolare dei Social Networks, strumento tanto diffuso quanto inflazionato nella discussione dei temi variamente connessi.
Non li menziono a caso, e rivolgo la mia attenzione soprattutto a LinkedIn, che costituisce ormai un veicolo primario per la trasmissione di informazioni, uno strumento di comunicazione divenuto imprescindibile tra i professionisti di ogni settore. È utile a farsi conoscere e per conoscere, per creare relazioni di business e sinergie, capace di perfezionare e qualificare l’immagine personale, vero, ma anche di cristallizzare l’immagine dell’azienda per cui l’iscritto lavora.
E se l’uso fatto è distorto o non conforme ai valori aziendali? Se l’azienda non fosse d’accordo sulle attività svolte su LinkedIn da un suo subalterno? Ma probabilmente il monitoraggio è limitato, o magari assente perché la società non è neanche a conoscenza che il lavoratore è iscritto. Quello che avviene sul Social resta così nell’ombra, facendo passare al mondo LinkedIn un’immagine non conforme della Società, e che questa non vuole – o non vorrebbe – far passare. Due piccole precisazioni: la prima è che in Italia gli iscritti LinkedIn sono più di 7 milioni (più di 330 nel Mondo); la seconda è che stando a quanto riporta il Financial Times, Zuckerberg sta mettendo a punto il nuovo progetto chiamato Facebook at Work per scalzare proprio LinkedIn dal ruolo di monopolista dei social network business oriented. Un potenziale di occhi attenti che deve far riflettere, sia per gli aspetti positivi che per i risvolti negativi.
Ecco quindi che nella quotidianità del contesto lavorativo ed in un’ottica di tutela dell’immagine della reputazione aziendale, è sempre più sentita l’esigenza di dettare delle linee guida ai dipendenti in merito – anche – all’utilizzo di LinkedIn. Si pensi alla foto del profilo del dipendente Tizio che lo ritrae in “pose professionalmente non conformi”, oppure l’adesione a gruppi di società concorrenti, o ancora la pubblicazione di notizie ed aggiornamenti che contrastano con le scelte imprenditoriali o con le politiche aziendali. Che fare?
In punto di diritto, stante l’evoluzione interpretativa dell’art. 2059 c.c. iniziata dagli Ermellini a partire dalla sentenza 12929/2007 III sez. civile della Corte di Cassazione, partiamo da quanto si afferma, a livello giurisprudenziale, sul danno all’immagine dell’azienda. In materia si è consolidato l’orientamento secondo il quale anche nei confronti delle persone giuridiche, ed in genere degli enti collettivi, è configurabile la risarcibilità del danno non patrimoniale allorquando il fatto lesivo incida su una situazione giuridica dell’ente, che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione, e fra tali diritti rientra quello relativo all’immagine, qualora si verifichi la sua lesione. In tali casi, oltre al danno patrimoniale, se verificatosi, e se dimostrato, è risarcibile il danno non patrimoniale costituito – come danno c.d. conseguenza – dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell’ente, sia sotto il profilo della incidenza negativa che tale diminuzione comporta, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica o l’ente di norma interagisca, con il presupposto che per incidere sulla reputation aziendale, la condotta deve avere una rilevanza all’esterno. LinkedIn è indubbiamente un mezzo più che idoneo a propagare comunicazioni o immagini lesive al di fuori del contesto lavorativo.
Ma il problema va prevenuto, non risolto. Ai fini dell’eventuale responsabilità civile ciò che si imputa è il danno e non il fatto, come invece avviene ai fini penali. Ma pur essendo la struttura della responsabilità costruita intorno al danno anziché al fatto, un fatto è comunque necessario perché la responsabilità sorga. Tale fatto è appunto costituito dalla condotta – omissiva o commissiva – nesso causale ed evento lesivo.
Vi è poi da precisare che il profilo LinkedIn non è di certo un bene aziendale, ma che è comunque opportuno andare a suggerire ai dipendenti che cosa è consigliabile fare e che cosa no, così da definire le condotte ritenute lesive e quelle che non lo sono per l’immagine aziendale. A conseguenza di quanto sopra, i regolamenti informatici aziendali si stanno popolando di sezioni appositamente dedicate a dettare le best practies aziendali sul corretto uso dei Social e di LinkedIn in particolare. L’attenzione a tali aspetti è ormai un atto dovuto in ragione della crescente utilizzabilità e dell’ampia diffusione dello strumento. Al giorno d’oggi, detti suggerimenti ai dipendenti risultano di indubbia utilità, non solo per costruire una base giuridica per eventuali contestazioni, ma anche e soprattutto per costruire e rafforzare l’immagine esterna della società, cercando di guidare già ab initio i comportamenti pubblicamente rilevanti di “chi parla con il cappello dell’azienda”. Attenzione, Internet non dimentica.